“O che bella devezione tè Chellonghe a Sant’Antone, quanta festa e quanta spesa fa i sante a ste paese”. Così recita in una strofa la canzone di Sant’Antonio Abate che pone l’accento sulla singolarità che caratterizza la festa per chi, collelonghese, la rivive ciclicamente dalla propria nascita.
Il Santo si può considerare “totemico” per il paese, infatti pur non essendo ufficialmente il protettore è ritenuto tale dai compaesani e onorato da tempo immemore, “da ie tempe chiù lentana”. La festa rappresenta un’occasione per rinsaldare un senso di appartenenza della popolazione anche per chi non è più residente. Fino a poco tempo fa alcuni emigranti erano soliti festeggiare Sant’Antonio anche nei paesi di adozione (Canada, Australia).
La festa si svolge nel periodo più freddo dell’anno, nei giorni centrali del mese di gennaio, tra il 10 e il 17, quando di sera, un corteo capeggiato da una persona negli abiti del santo, si muove dalla piazza centrale del paese seguendo una banda di suonatori locali e intonando le note della canzone tipica. Si tratta di canti di questua che si svolgono anche il pomeriggio, quando gruppi di bambini del paese si presentano cantando nelle abitazioni, richiedendo offerte in natura e in denaro. Il corteo serale si dirige verso le case, da cui escono compaesani che offrono loro da bere e da mangiare.
Per tutto questo periodo è in uso in paese organizzare le “paste di Sant’Antonio” un pasto rituale collettivo. Famiglie o gruppi di persone offrono un piatto di minestra, un panino e delle bevande a tutti i compaesani e non, riuniti per vivere un momento di condivisione con senso di appartenenza, di identità e di ospitalità.
Alle 16.00 del 16 gennaio, al rintocco delle campane si riuniscono nelle “cuttore” tutti i componenti della stessa e gruppi di persone che seguendo le anziane recitano le litanie, preghiere volte ad ingraziarsi i favori del santo prima che il capofamiglia cominci a versare la prima “coppa” di granturco nel calderone.
Comincia così la lunga sequenza delle attività della festa che vedrà il susseguirsi di visite da parte di gruppi di persone al seguito di bande intonanti la canzone del Santo.
Alle 19.00 vengono accesi i fuochi, in passato era in uso dare fuoco a cataste di “nibbie” (ginepri) che bruciano per ore nella notte dando vita ai “favore”.
Il rito si ricollega per lo più all’usanza dei pastori che dagli stazzi nei dintorni del paese realizzavano fuochi che, da una parte, erano simbolicamente legati ad onorare Sant’Antonio, dall’altra servivano per tenere lontano i predatori dalle greggi. Oggi rivive sia la tradizione del “favore” alla chiesetta dedicata al santo, sita a circa 2 chilometri dal paese, mentre ha preso piede la tradizione del “torcione” allestito nel periodo natalizio e post natalizio.
Alle 21.00 dalla piazza della chiesa si riunisce il corteo ufficiale con a capo il parroco del paese che si muove preceduto dai bambini che danno vita ad una fiaccolata di “torcette” e da un gruppo composto da musici del posto e dalla popolazione che intona costantemente e ripetutamente la canzone del Santo. Il parroco durante la processione raggiunge tutte le “cuttore” per benedire i “cicerocche”.
La festa continua per tutta la nottata, singolarmente o in piccoli gruppi ci si reca nelle “cuttore” dove si canta “Sant’ Antonie” e avviene l’offerta di bevande e dolciumi, inoltre si conserva la tradizione di carattere apotropaico, in cui si rivolge una preghiera al santo per assicurarsi la sua benevolenza, che consiste nel girare tre volte con il manere i “cicerocche” (granturco sgranato) che ribolle nei calderoni per tutta la notte.
Alle prime luci dell’alba, dalle cuttore, una volta, uscivano donne con le conche ricolme di ciccerocche che si recavano presso il sacrato della Chiesa Madre. Questa tradizione è rivissuta oggi quando alle ore 06.00 inizia la sfilata delle conche “rescagnate” (addobbate) portate dalle fanciulle dalla cuttora nella piazza della chiesa, con al seguito un corteo di musicanti.
Alla conca più bella ed al vestito più caratteristico viene assegnato un premio, una volta consistente in beni di prima necessità mentre oggi è di natura pecuniaria.
Segue quindi la Santa Messa dove partecipano tutti i concittadini che durante la notte hanno intonato la canzone del Santo per le vie del paese.
La festa si conclude nel pomeriggio del 17, quando presso l’aia principale del paese si dà luogo alla benedizione degli animali e alla messa in scena dei giochi popolari.
Cenni storici del culto di Sant’Antonio Abate a Collelongo
Le prime attestazioni storiche relative al culto di Sant’Antonio Abate a Collelongo risalgono allo scorcio del 1600, periodo in cui verosimilmente venne eretto l’Altare dedicato al Santo nella chiesa di Santa Maria Nuova. A partire dalla prima metà del XVII secolo iniziano a comparire le registrazioni dei nati, dei morti e dei matrimoni dell’arcipretura di Santa Maria Nuova, Chiesa Parrocchiale del paese. Nel Liber Mortuorum, si fa esplicita menzione della prassi di seppellire nelle pile cimiteriali poste al di sotto del piano pavimentale della Chiesa. In un documento del 1640, l’arciprete, Don Andrea Floridi, registrava il decesso di Filippo di Donato Cesta, sepolto sotto il pilastro di Sant’Antonio. Con molta probabilità il pilastro menzionato è relativo all’altare su cui è stata realizzata la statua lapidea del Santo. Sul piedistallo di questa si conserva ancora oggi l’incisione di un restauro avvenuto in occasione della visita del Vescovo Corradini nel 1692: RDBRP-MDCLXXXXII (Reverendo Don Biagio Rossi Procuratore). Restauro, commissionato dal parroco Don Biagio Rossi come dimostra anche un documento dell’Archivio Parrocchiale. Nonostante non esista una datazione certa riguardo la realizzazione della Statua, sulla base dell’analisi stilistica e di quanto attestato nelle fonti archivistiche, si può proporre una datazione compresa tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600.
La statua
La storia popolare tramanda due versioni circa la realizzazione della statua del Santo attualmente posta nella navata di destra della Chiesa madre a Collelongo.
La prima racconta di due contadini intenti ai lavori nei campi che, invocando il Santo, scamparono ad un masso di pietra precipitato a valle. Dallo stesso masso questi fecero scolpire la statua, che poi donarono alla Chiesa.
La seconda vuole che la statua fosse stata scolpita da un masso proveniente dal “Pizzo Morrone”, (località montana posta ai confini meridionali del territorio collelonghese) trasportato in paese, dopo vani tentativi dei più possenti buoi del posto, da una coppia di giovenche al cui padrone era apparso in sogno Santo Antonio Abbate.
La Statua, raffigura il monaco anacoreta come un vecchio ultracentenario con barba fluente e con gli occhi fissi in severità. Il Santo è rivestito con saio monacale tipico degli antoniani, brandendo un fuoco nella mano destra alzata, mentre sulla sinistra regge il classico bastone a tau e il libro della fede sotto il braccio. Sino ad alcuni decenni fa il Santo era accompagnato da un maialino posto in basso, strettamente associato al Santo che assurge a protettore degli animali e dell’economia contadina.
La Statua è posta al di sopra di un altare, in un elegante nicchia incorniciata da stipiti lavorati con tralci di vite e terminante a tutto sesto con chiave di volta e capitelli che sorreggono le emiarcate superiori. Sopra il santo c’è una vasta valva di conchiglia decorativa. L’altare è sorretto da due eleganti colonne scanalate con capitelli occupati da cherubini dalle cui ali pendono dei festoni. Al di sopra dei capitelli appaiono due volti orridi che potrebbero simboleggiare figure demoniache sempre connesse con la vita del Santo.
Da sempre la statua viene addobbata durante i giorni della festa. Una volta venivano usate le “uova fetate”, le salsicce e le “panette”.
Più di recente la tradizione vuole che ad ornare la statua vengano usate le arance, unico elemento di colore in un periodo privo di fiori o altri elementi ornamentali.
Finita la festa le arance vengono portate ai malati del paese come augurio di pronta guarigione.
Le “cuttore”
La “Cuttora” deriva dal termine greco Xύτρα-Chytra ed indica il calderone dove, attualmente, si mette a cuocere il granturco sgranato. Dopo sei/sette ore di bollitura si ottengono i “cicerocche” (dal latino cicercrocus – cece rosso) che dopo la benedizione a cura del sacerdote vengono distribuiti ritualmente durante la nottata e trasportati, la mattina del giorno seguente, presso la chiesa parrocchiale dove si effettua una ulteriore distribuzione finalizzata principalmente all’alimentazione animale. In passato al posto del granturco venivano messe a cottura altre tipologie di granaglie (fave, ceci o cicerchie), reminiscenza popolare del rito della panspermia proprio della tradizione contadina delle aree rurali interne del mezzogiorno.
La “cuttora” viene allestita all’interno di abitazioni private ubicate nelle diverse contrade del paese. Alcune di queste sono residenze storiche delle famiglie più altolocate, facultate-obbligate alla preparazione, altre sono abitazioni caratteristiche del paese ricavate nel banco roccioso, molte sono invece modeste abitazioni che vengono riqualificate e spesso restaurate per l’occasione. Il fulcro della “cuttora” è il focolare delle abitazioni, acceso con legna di ginepro e di quercia, sul quale è posto il calderone di rame: la cuttora. La cuttora identifica pertanto anche l’abitazione dove, al rintocco delle campane dei vespri del giorno 16, le donne più anziane della contrada si riuniscono per recitare le litanie. Si tratta di un’orazione di carattere apotropaico volta ad ingraziarsi la benevolenza del Santo.
All’interno della “cuttora” si ospitano i pellegrini e le bande di suonatori che vagano per tutta la notte intonando i versi della canzone classica.
La “cuttora” era prerogativa, un tempo, del patriarca di una famiglia che invitava a parteciparvi i parenti più prossimi, i quali contribuivano spesso con “coppe” di granturco, vino, farina o salsicce.
La festa dentro la “cuttora” proseguiva per tutta la notte ed era anche il momento in cui venivano pianificate la semina e le altre attività agresti della famiglia. Alla presenza del Santo erano vietate liti e, pertanto, il momento era propizio per arrivare ad accordi.
Nella “cuttora” erano ben accetti i viandanti o i pellegrini ai quali veniva offerto ciò che la “cuttora” aveva, ovvero la “panetta”, qualche ciambella, un bicchiere di vino e, soprattutto i “cicerocche” conditi talvolta con un po’ di lardo.
Attualmente all’interno della cuttora si dà vita ad un vero e proprio pasto collettivo, caratterizzato da una atmosfera gioiosa dove il senso di appartenenza e la solidarietà verso gli stranieri si esprimono attraverso canti, schiamazzi e offerte di cibo di qualsiasi genere.
Torte, panini, ciambelline e dolci tipici della tradizione vengono consumati dinanzi il calderone che silente ribolle per tutta la notte e questo rito ancestrale viene interrotto soltanto dal senso di religiosità popolare che si esprime nell’atto di rigirare per tre volte consecutive il granturco bollito, gesto anche esso apotropaico in cui ogni singolo partecipante evocala benevolenza del Santo.
Al sorgere del sole, un tempo, uscivano le donne che trasportavano sul capo le conche ricolme di “cicerocche” sino alla chiesa madre dove avveniva la redistribuzione per gli animali.
Le conche, venivano disposte in lunghi filari, una dinanzi all’altra, prima che i contadini e gli allevatori del posto nonché i più bisognosi, potessero prelevare porzioni di cicerocchi benedetti da destinare principalmente agli animali. Il rito si riconnette pertanto al ruolo di protezione del bestiame che ricopre l’immagine del santo per la plebe contadina.
Oggi, questo antico rituale si esprime con la sfilata delle conche che vede come protagoniste le “vajjole rescagnate che le conche‘nfrellazzate!”.
Le conche “rescagnate”
All’alba del 17 gennaio dalle “cuttore” escono fanciulle vestite con gli abiti tradizionali di Collelongo portando sulla testa la conca “rescagnata” ovvero addobbata e inghirlandata e si dirigono, seguite da un corteo di suonatori, verso la chiesa madre dove sfilano per diverso tempo prima che venga decretata la conca meglio realizzata ed il vestito più bello.
Non è molto chiara l’origine di questa tradizione. Fra le diverse ipotesi vi è quella che vuole questa sfilata come occasione per far conoscere le ragazze in età da marito. Il fatto che indossassero il vestito delle grandi occasioni e portassero sul capo una conca ricolma di confetti e dolciumi in qualche modo rimanda ai riti nuziali.
Il fatto certo è che nei decenni successivi la prima guerra mondiale, si è diffusa l’usanza di decorare la prima conca che usciva dalla cuttora prima di dirigersi presso la chiesa parrocchiale dove avveniva la distribuzione.
Le “panette” e le “paste”
La tradizione di distribuire cibo durante la settimana che precede la festa di S. Antonio Abate ha origini di dubbia natura, secondo lo studioso Alfonso Di Nola era un modo di fare l’elemosina ai cosiddetti poveri timorosi che altrimenti non sarebbero andati “sua sponte” a chiederla.
Lo studioso Angelo Melchiorre, invece, attribuisce l’origine delle panette ad una più modesta forma di remunerazione del lavoro svolto nei riti della festa da parte dei partecipanti ed in primis dall’officiante sacerdote.
Accanto alle motivazioni socioeconomiche ed antropologiche sono presenti massimamente quelle religiose che trasformavano il periodo di Sant’Antonio con l’acme dell’approntamento delle cuttore in un giubileo della carità cristiana per gli indigenti e né è da sottovalutare la componente tradizionalista che evidenziava un raro attaccamento ed un rispetto atavico al clan familiare da sempre depositario del rituale per una indiscussa fede religiosa ad un santo protettore di un ceto agro silvo-pastorale.
Tutte le ambiguità e le contraddizioni riscontrate nei rituali del santo si sanano se il tutto viene ricondotto ad un sincretismo religioso pagano cristiano che è la somma di un cumulo di stratificazioni di antiche credenze e remoti riti difficilmente documentabili nel corso dei tempi.
Il rito del pasto collettivo riveste un’importanza fondamentale quale collante della collettività e componente fondamentale di quel senso di appartenenza che, da sempre, caratterizza le feste delle aree marginali e montane.
Come per le cuttore anche per le paste sono clan familiari che avevano l’obbligo di perpetuare il rito. A differenza delle cuttore l’obbligo era per linea di successione maschile.
Oggi sono poche le famiglie che offrono il pasto, rimpiazzate da nuove modalità di aggregazione sociale che sono le associazioni o le confraternite.
Le “panette” hanno un’origine più chiara legata al rito della questua propria del periodo della festività di Sant’Antonio. Per devozione alcune persone sfornavano la “panetta” che poi offriva in primis al vicinato e poi a coloro che venivano a chiedere la carità in nome del Santo.
Il fuoco e gli animali
Il fuoco è un elemento caratteristico di tutto il periodo che va dal 13 dicembre (Santa Lucia) al 04 di febbraio (La Candelora), ovvero quel periodo in cui il ciclo della luce vive il periodo più basso che ha il proprio apice con il solstizio d’inverno.
Il fuoco inteso come luce, ricopre un ruolo propiziatorio di vittoria della luce sulle tenebre che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Mentre come fonte di calore, svolge le funzione benefica di portare sollievo nel periodo dove maggiore è il freddo.
In questo periodo sono vari i “favore”, i “torcioni” o le “torcette” che vengono realizzati per le festività più importanti: l’8 di dicembre (Immacolata Concezione), il 24 dicembre (Natale) il 31 dicembre (Capodanno) ed il 16 gennaio (Sant’Antonio Abate).
A Sant’Antonio Abate era in uso realizzare i “favore”. Erano i pastori che lasciavano gli stazzi ubicati nei dintorni del paese, principalmente Amplero, che accendevano cataste di legna, soprattutto “nibbie” (ginepro) quale segno di devozione al Santo. Il principale “favore” era realizzato in località “Preta Rossa” (Pietra Grande) sulla strada che da Amplero scende verso il cimitero di Collelongo.
Da questo punto è possibile vedere sia il paese che gli stazzi di Amplero e la tradizione vuole che al più vecchio ed al più giovane tra i pastori che tornavano dagli stazzi a far festa, fosse dato l’onore di accendere il “favòre”.
Nel corso degli anni per Sant’Antonio è stata adottata la consuetudine di realizzare il “torcione” che precedentemente era innalzato nella notte di Natale. Il “torcione” riprende, in molte sue caratteristiche, la tradizione pagana di utilizzare l’albero come segno di fertilità della terra, tradizione in voga un tempo in molti luoghi d’Abruzzo che oggi si ritrova soprattutto nel “Ju cannele” di Tornimparte (Aq).
Il “torcione”, caratteristica unica di Collelongo, una volta era ricavato da un unico esemplare di quercia che abili maestri d’ascia provvedevano a lavorare fino a dargli la caratteristica forma.
Questo successivamente veniva “inzeppato” con “stangoni” ed altra legna ed infine issato nelle piazze principali del paese.
Menzione meritano le “torcette” le particolari torce che i bambini di Collelongo utilizzano la sera del 24 dicembre e nella processione di Sant’Antonio del 16 sera.
A differenza delle normali torce che si usano altrove quelle di Collelongo sono realizzate “torcendo” ovvero avvolgendo su se stesso (da qui il nome) un virgulto di roverella, cerro o carpine. Questa operazione sfibra il legno permettendo alle abili mani del torcettaro di ricavarne un prodotto unico.
Dove e Quando
- Piazza della Chiesa, 67050 Collelongo AQ
- 17 gennaio e i giorni che lo precedono
Info
- Associazione “Sant’Antonio Abate – La Cuttora”
- Piazza della Chiesa, 67050 Collelongo AQ
Foto
Video
La notte magica della festa di Sant’Antonio Abate. Servizio di Giacomo Avanzi, in collegamento da Collelongo (AQ), per Tv2000.
La cuttora
La cuttora
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Contenuti della pagina a cura di:Guido Pisegna